Chernobyl

di Carla

questo articolo è stato pubblicato su La Stampa (viaggio a Chernobyl 34 anni dopo)

Il paesaggio di campi coltivati, gruppi di case, centri commerciali e distributori lascia il posto a una foresta di betulle e pioppi, mentre le auto si fanno più rare. Avvicinarsi alla zona di esclusione di Chernobyl è fare un viaggio nel tempo, tornare a scenari idilliaci da romanzo russo, almeno fino al posto di blocco all’ingresso dell’area teoricamente interdetta, un luna park di vistosi stand che commercializzano la radioattività in ogni sua declinazione, dalle maschere antigas vintage alle tute integrali, agli adesivi con i segnali di pericolo gialli e neri.
L’industria della visita turistica all’ampia zona a un centinaio di km a nord di Kiev, al confine tra Ucraina e Bielorussia, chiusa in isolamento dopo il collasso della centrale nucleare il 26 aprile 1986, è fiorita negli anni, arricchendosi sempre più di attrazioni e allargando via via il suo raggio d’azione.
Oggi un giro completo prevede la visita alla centrale, affollata di tecnici e operai e per nulla abbandonata, l’esplorazione di piccoli villaggi disabitati e della città fantasma di Prypiat, la new town con asili, piscine, cinema e teatri che aveva attirato personale altamente specializzato da tutta l’Urss, li museo che raccoglie la variegata tipologia dei mezzi usati per la bonifica, e si conclude al gigantesco radar, mai usato, che avrebbe dovuto intercettare eventuali missili diretti contro la centrale, un monumento alla guerra fredda che si erge come una muraglia cinese di ruggine e tralicci nel mezzo di un bosco.
Ospite silenziosa e inavvertita, la radioattività si palesa solo grazie al contatore Geiger della guida: a volte è quasi nulla, ma basta un colpo di vento, basta smuovere lo strato di foglie che ricopre il terreno e si risveglia di colpo. L’apertura al pubblico dell’area, che con il passare del tempo e il calo dei livelli di contaminazione si è ampliata, è appesa a un filo.
A Prypiat la guida indicando un edificio qualsiasi, come gli altri immerso nella vegetazione e corroso dal tempo, spiega che al suo interno i livelli di radioattività sono tuttora altissimi perché all’epoca del disastro veniva usata come deposito d tute e materiali contaminate, meglio non avvicinarsi troppo e non entrare. “E quando con ogni probabilità, tra dieci o vent’anni crollerà, probabilmente l’intera città sarà di nuovo off limits perché il livello di contaminazione tornerà altissimo”.
Ma la zona d’interdizione è un concetto teorico e in qualche modo elastico . Fin dall’inizio l’area, troppo vasta per essere effettivamente sorvegliabile, è stata presa di mira dai ladri in cerca di oggetti interessanti e di materiali da riciclare. Hanno visitato e messo a soqquadro le casette dei villaggi e i condomini di Prypiat, asportando tutto quello che poteva avere un valore.
E la centrale, dove invece si continua a fare l’indispensabile manutenzione e che si progetta di convertire in un impianto a energia solare, pullula di tecnici e operai. Mangiare con loro in mensa, dopo aver superato le apparecchiature che all’ingresso controllano l’irradiamento, è un momento strano. Il guscio di cemento armato che protegge il reattore esploso è lì a due passi, visibile dai finestroni e subito fuori dalla cerchia della centrale i boschi nascondono ruderi disabitati e fantasmi di asili, scuole, ambulatori lasciati da un giorno all’altro.
Tra i pezzi dei mosaici che un tempo adornavano gli edifici pubblici di Prypiat, murales di orsi e cervi dipinti, chissà quando sui muri, insegne al neon semi collassate, circolano i cani di Chernobyl, grandi e tristi anche se apparentemente sani. La vita vegetale e quella animale prosperano e nei boschi si intravedono anche i discendenti dei cavalli che vennero liberati subito dopo l’esplosione. Uno strambo e crudele esperimento del governo sovietico per vedere quanto sarebbero sopravvissuti. “E loro sono sono ancora qui, ormai bradi – spiega la guida – anche se la loro vita media è un po’ più breve. Ma, secondo gli scienziati presto recupereranno il gap. La natura è forte”.