Corea del Nord

di Carla

Questo articolo è stato pubblicato su Erodoto 108 (Corea del Nord. Un mondo a parte)

Ora che la Corea del Nord torna d’attualità per la presunta morte del suo terzo amato leader, il dittatore figlio e nipote d’arte Kim Jong-un, mi capita sempre più spesso di pensarla con una strana, paradossale, fitta di nostalgia. So che non è politicamente corretto e non ignoro la letteratura in merito al suo regime comunista-dinastico e a tutte le nefandezze, vere e presunte che gli si attribuiscono.
Anzi, posso confermare, almeno per la parte che riguarda la stretta sorveglianza su ogni risvolto della vita sociale. E so ovviamente che secondo Amnesty il livello del rispetto per i diritti umani è pari a zero.
Eppure c’è qualcosa di così alieno in quel paese da risultare, almeno per me, affascinante. Non ho mai visto l’URSS staliniano, ma immagino qualcosa di simile: regna un ordine perfetto, come avevano notato anche due insoliti e noti estimatori di Kangsòng Daeguk (Nazione potente e prospera, è il motto sullo stemma) ovvero Matteo Salvini e Antonio Razzi, e la quasi totale assenza di auto (e peraltro anche di autobus e treni), la mancanza di insegne luminose e di negozi e la solitudine delle campagne, dopo il primo attimo di smarrimento infondono un senso di pace, la sensazione di essere fuori dal flusso del tempo.
La verità è che visitarla era il mio sogno e a settembre del 2014 per una decina di giorni il sogno è diventato realtà. Ci sono entrata senza barare sul mio mestiere, ma promettendo che non ne avrei scritto. Mi hanno dato fiducia. Ora rompo quella promessa perché credo sia superata. Della Corea del Nord parlano tutti, a proposito e no. E allora perché non anch’io che almeno un po’ l’ho vista?
Non sono in effetti l’unica, né così rara. Il paese ha, o almeno aveva, un suo flusso di visitatori, circa 50 mila all’anno, in gran parte lì per affari o per motivi legati alla cooperazione internazionale, ma anche affascinati, come me, da un luogo diverso da ogni altro al mondo. E aveva anche delle ambizioni turistiche: un milione di visite l’anno, ci si riprometteva sei anni fa, in un momento che, politicamente, è distante anni luce. Incoraggiati, però, da un trend decisamente in crescita: agli inizi del millennio i turisti a Nord del 38° parallelo erano 700 all’anno.
All’arrivo da Pechino, uno dei tre scali, insieme a Vladivostok e Shenyang che, almeno in tempi più fausti, manteneva voli regolari con Pyongyang, l’aeroporto internazionale di Sunan appariva in piena evoluzione: il vecchio, essenziale capannone quasi oscurato dal nuovo terminal, piccolo ma moderno e luccicante d’acciaio e vetro, di evidente fattura cinese e affollato di gente.
Da lì è iniziato un viaggio insolito, almeno per una persona abituata, fino a pochissimo tempo fa, a spostarsi liberamente. Il tour della Corea del Nord è interamente organizzato. Ma la parola non rende l’idea: significa essere costantemente accompagnati e custoditi in ogni momento della giornata, essere prelevati dall’albergo al mattino e riportati a sera dopo aver trascorso tutto il tempo, nel nostro caso, con una coppia di affabili e sorridenti accompagnatori/interpreti che rivestivano con ogni evidenza ruoli diversi e distinti. C’era un giovanissimo studente di italiano (nella Corea del Nord ci sono studenti di ogni possibile lingua europea, in genere con un ottimo livello di conoscenza) che ci tempestava di domande e ci forniva ogni possibile dettaglio e c’era un compassato trentenne di poche parole, che parlava solo inglese (anche se a volte rispondeva a domande che non avevamo mai formulato, se non tra di noi).
La prima cosa che colpisce, appena usciti dall’aeroporto è la vista di una campagna senza tempo, ordinatissima, idilliaca, interamente e minuziosamente coltivata. Non ci sono quasi mezzi meccanici, gli attrezzi sono quelli del mondo rurale di un tempo, la vanga, la falce, la zappa, ci si muove soprattutto a piedi o in bicicletta. Anche gli animali non sono numerosi.
Ma, sui percorsi prefissati almeno, non c’è traccia di incuria né di stenti e i villaggi, organizzati in comuni agricole, appaiono piacevoli con le loro case di stile tradizionale, i grandi spiazzi centrali sormontati dagli onnipresenti ritratti dei “grandi leader”, Kim Il Sung e il suo figlio e successore Kim Jong Il, gli stagni per la pesca, i mille alberi da frutto e i servizi di base e non solo, dall’asilo all’emporio al parrucchiere. Tutto deserto o quasi, salvo gli asili popolati da bambini che cantano canzoncine patriottiche. Un set pronto per un film, si direbbe, un “villaggio di Potemkin” grande come un paese. Una donna ci fa da guida nella visita a uno di questi centri; saranno sempre le donne, a ogni incontro e a ogni occasione, ad accompagnarci, al museo dell’industria pesante come al Conservatorio, parlandoci spesso in inglese, talvolta in francese o persino in italiano: eleganti, quasi sempre abbigliate con il colorato e vaporoso abito tradizionale, truccate con discrezione, sorridenti. Chiederemo invano dove sono gli allevamenti di animali. Un sorriso e un vago gesto in direzione imprecisata sono l’unica risposta.
Le strade, asfaltate ma piene di buche, sono deserte, salvo la comparsa improvvisa di qualche costoso SUV governativo e di rare jeep dell’esercito lanciate alla massima velocità possibile.
Poi, passato l’enorme arco intitolato a una qualche fratellanza tra popoli, Pyongyang appare tutto a un tratto, una schiera di casermoni sorti dal nulla.
La capitale si annuncia con una serie di palazzi altissimi, bianchi, ultramoderni e ordinati raccolti attorno a corsi enormi e a grandi giardini ricchi di laghetti, statue e monumenti. Le case, dicono, sono senza ascensori né riscaldamento, vere ghiacciaie nel rigido inverno nordcoreano, e la notte rivela la scarsità di watt dell’illuminazione con una distesa di lucine da camposanto dove brilla incontrastata la stella rossa perennemente accesa in cima alla torre dell’idea Juche, l’ideologia autoctona sviluppata da Kim Il-sung che coniuga e riunisce autarchia, autosufficienza, patriottismo, tradizionalismo coreano e marxismo-leninismo. “L’uomo è padrone di ogni cosa e decide di ogni cosa”, recita la massima-guida. Un faro nella notte nebbiosa dalla finestra dell’enorme albergo per turisti che è l’unico edificio di un’isoletta al centro del fiume che scorre in mezzo alla città.
Mancano, del tutto, negozi, ristoranti, neon e vetrine. Ci sono empori di stato con merci selezionate pagabili in ogni possibile valuta esclusa quella locale, invisibile, e posti dove si mangia, in genere bene, nascosti ai primi piani dei palazzi, e simili a case private, frequentati da quella che sembra la nomenklatura, grandi, allegre famiglie avare di parole ma prodighe di sorrisi.
Uno dei pochi contatti possibili con la popolazione, vera grande assente del viaggio, escluso qualche rapido sorriso e cenno di benvenuto scambiato in strada e un karaoke collettivo nella zona turistica speciale di Kamgangsan, nel Sud-est, vicino al confine, dove tra monti e lagune che sembrano usciti da una china giapponese e alberghi nuovi e tutti illuminati, il Nord e il Sud fanno pace e famiglie divise dalla storia s’incontrano per rimpatriate che, si cammini in montagna o si ceni in un simpatico ristorante con arredi in legno, hanno il comune denominatore del canto, una comune passione nazionale che ha resistito a sessant’anni di divorzio.
Pyongyang offre passeggiate lungo il fiume, enormi e grandiosi monumenti con statue iperboliche di Kim Il Sung e Kim Jong Il davanti a cui ci si deve inchinare resistendo alla tentazione di fotografarle, mentre non c’è traccia del “Rispettato maresciallo”, così è chiamato in patria l’attuale leader, Kim Jong-un. E ancora, palazzi improbabili come il misterioso e incompiuto Ryugyong Hotel, un gigantesco edificio a metà tra un missile e una piramide, infiniti omaggi ai caduti, molti luna park (ogni quartiere ne ha uno, ci dicono), e spazi enormi e vuoti. Potrebbe essere una città centroasiatica o sovietica e non mi meraviglio quando scopro, visitando un museo, che il gigantesco gruppo familiare che celebra in cima a una collina sopra Dakar, in Senegal, il “Rinascimento africano” e che mi era parso così singolare, è stato realizzato dalla società nordcoreana “Mansudae Overseas Project Group of Companies”. C’è anche un Arco di Trionfo, che in una grande piazza segna il punto dove Kim Il Sung parlò per la prima volta ai coreani dopo la fine dell’occupazione giapponese, nel 1945 e dove, il giorno del mio arrivo, migliaia di coppie, le donne in costume, gli uomini in eleganti completi, danzavano tutti insieme in quello che la nostra guida ha chiamato “un ballo di massa”, un modo comune per festeggiare le ricorrenze, numerose, legate ad avvenimenti bellici o a eventi della vita di Kim Il Sung e Kim Jong Il.
La città antica – gli americani hanno bombardato tutto, secondo la nostra guida e prima di loro a fare tabula rasa ci avevano pensato i giapponesi e i mancesi – è rappresentata solo da una porta monumentale sulla riva del fiume Taedong, che attraversa e divide Pyongyang.

Le tracce del passato si trovano in una sorta di parco a tema nei dintorni, dove mosaici didascalici e edifici ricostruiti raccontano la storia del paese e i complessi e da sempre burrascosi rapporti con il Giappone.
Molto, nella divisione è restato patrimonio esclusivo del Sud ma il Paese ha le sue eccellenze, in particolare il sito delle Tombe della dinastia Koguryeo, che dal 2004 è patrimonio dell’Unesco: sono 63 grandi tumuli reali datati tra il V secolo e il VII secolo, in pietra massiccia, immersi in una campagna ondulata di colline erbose, e decorati all’interno con affreschi coloratissimi della vita quotidiana dell’epoca. Una versione molto più raccolta e assai meno caotica delle celebri tombe imperiali di Pechino.
Il vero lusso del viaggio è la quiete, quasi irreale, che regna ovunque. Un mondo a parte, ordinato e silenzioso dove i nostri telefonini non prendono e non si collegano a Internet, che in Corea è presente solo con una versione a uso interno. Per telefonare all’estero si chiama dall’hotel attraverso un centralino, come tanti tanti anni fa. In cambio c’è una metropolitana profondissima che ricorda vagamente quella di Mosca e abbondano parchi, musei, scuole e biblioteche. Nella più grande della città, la Grand People’s Study House, un imponente edificio che ospita, ci dicono, trenta milioni di libri, si trovano, un po’ a sorpresa, molti testi letterari importanti della letteratura occidentale nelle edizioni originali e una rete interna di computer che permettono di ricercare e leggere. Ci sono, qui e là, nell’ordine semplice e austero del paese, delle isole sorprendenti e sofisticate di tecnologia e innovazione.
Come il campeggio internazionale di Songdowon, vicino alla città portuale di Wonsan, sulla costa Est, dove ogni anno centinaia di bambini di diversi paesi, almeno di quelli che mantengono relazioni con il Nord Corea, passano vacanze studio tra piscine coperte e scoperte, circuiti per la corsa, strutture sportive eccellenti, un laghetto per le canoe e persino un acquario interno veramente spettacolare.
C’è persino, nuova di zecca, una stazione sciistica tra i monti del  massiccio di Masik: niente abeti e cime basse, ma molto nevose d’inverno: uno scampolo di Alpi (agli impianti pare abbiano lavorato ditte svizzere e austriache) con tanto di albergo a cinque stelle dotato di spa e funivie e piste ben tracciate.
Ho chiesto al giovane studente di italiano chi sono i clienti di questo resort. “Tutti i coreani”, mi ha risposto. Ma fatico a immaginarmi sulle piste da sci i contadini carichi di sacchi di iuta che ho visto arrancare lungo le strade di polvere su biciclette d’anteguerra.

C’è pochissimo traffico sulle grandi strade, anche quando si va a Sud verso P’anmunjŏm, il villaggio sul confine dove venne firmato l’armistizio del 1953 che pose fine alla guerra tra le due Coree. Tutto è strettamente e doppiamente sorvegliato, conservato come nel momento in cui vi s’incontrarono i negoziatori internazionali per negoziare: le baracche, i tavoli e le sedie, la scarna scenografia riprodotta nelle foto d’epoca.
Qui, nella zona smilitarizzata, oggi le due Coree s’incontrano e si scrutano con i binocoli ultrapotenti dei militari e con gli occhi curiosi dei turisti che in qualche punto della grande struttura militare si fronteggiano, schierati sui due lati del confine, a vista.

La zona infatti è accessibile da ambo le parti e la visita, sia pure con percorsi strettamente separati è un’attrazione offerta da entrambi i governi. E qui, per qualche momento il telefonino si rianima e si aggancia a qualche rete sudcoreana, perché Seul è appena a 70 chilometri. E’ un piccolo ritorno al presente, una breve affannosa consultazione dei messaggi e delle mail, poi di nuovo il nulla. Sembrano invece del tutto deserti anche se ben tenuti e spesso quasi interamente restaurati i templi buddisti. Nel paese ce ne sono diversi, di grande impatto paesaggistico e si possono visitare, in genere accolti da un monaco custode molto affabile che propone qualche foto ricordo e un bastoncino d’incenso da bruciare. Il vero centro del culto nazionale, però, è il gigantesco e lussuoso Palazzo del Sole a Pyongyang dove plotoni di coreani vestiti a festa sinceramente commossi e talvolta piangenti e tutti gli ospiti stranieri di passaggio rendono omaggio, secondo un preciso e rigido cerimoniale obbligatorio, ai “Grandi leader” in due mausolei che ricordano moltissimo quello di Lenin a Mosca. Tre inchini su ogni lato del feretro, ma non dalla testa perché è di cattivo auspicio, un mazzo di fiori in omaggio e la certezza di aver avuto il privilegio di ammirare una divinità perché nella vulgata coreana entrambi i leader, autori in vita di veri miracoli, non sono morti e vivranno per sempre. Una convinzione dove il materialismo storico cede per sempre le armi ai racconti buddisti sui bodhisattva.
Delle loro glorie terrene testimonia invece un altro grande complesso tra i monti Myohyang, una zona molto amata dagli escursionisti dove, in mezzo a boschi e cascate, i padiglioni dell’International Friendship Exibition raccolgono e catalogano tra marmi, porte in legno massiccio e statue in cera a grandezza più che naturali di tutti i loro familiari, le centinaia di migliaia di regali ricevuti da Kim Il Sung, Kim Jong Il e in ultimo anche da Kim Jong-un. Una rassegna pressoché infinita di oggetti spesso preziosi e a volte curiosi – c’è anche un pallone da pallacanestro autografato da Madeleine Albright – ma tutti etichettati, divisi per nazione, datati e catalogati: tra i donatori ci sono capi di stato, politici e imprenditori del mondo intero, Italia compresa e ben rappresentata.
E poi c’è naturalmente, il circo, o meglio gli spettacoli acrobatici per cui la Corea del Nord è famosa e pluripremiata al Festival internazionale di Montecarlo: un’arte a cui il paese ha dedicato un apposito teatro con scuola annessa dove ogni giorno vanno in scena davanti a spettatori che arrivano da tutto il paese spettacoli mozzafiato, accompagnati da un’orchestra che suona musiche composte appositamente per la scena. Un’ora di pura evasione e di evoluzioni che fanno veramente tenere il fiato sospeso e uno degli spettacoli più amati dai coreani insieme ai concerti della rock band interamente femminile delle Moranbong, voluta e scelta da Kim Jong-un in persona e onnipresente in tv: ragazze belle, giovani e vestite in modo ammiccante che suonano, molto bene, strumenti classici e moderni, dal violino all’arpa, e che mescolano motivetti pop, melodie vagamente etniche e inni marziali intonati con l’accompagnamento del coro dell’esercito. Divise e minigonne, la risposta nordcoreana a Psy e al suo Gangnam Style che nello stesso anno della loro nascita, il 2012, aveva portato alla ribalta internazionale il pop sudcoreano.
Della Corea del Nord mi riaffiorano a tratti immagini tenere e surreali: una bella ragazza, vestita con eleganza che in ginocchio nel parco del palazzo del Sole strappa con cura e a mano una a una le erbacce; una cena di vongole giganti arrostite su un bidone di metallo e odorose della benzina usata per alimentare il fuoco in una “zona turistica” persa in una pianura infinita; due cani lupo, gli unici animali domestici mai visti in tutto il viaggio, discendenti diretti, mi avevano spiegato, di una coppia regalata alla Corea del Nord dal leader della Germania dell’Est Hoenecker durante un viaggio ufficiale; meravigliose spiagge di sabbia orlate di pini marittimi interamente cintate dal filo spinato per paura di un’invasione via mare dal Giappone; l’incredibile diga di West Sea, che vicino alla città di Nampo chiude la foce del fiume Taedong con una diga di otto chilometri realizzata interamente con materiali di riporto scaricati in mare a forza di braccia da migliaia di operai con immaginabili “incidenti sul lavoro”. Un’opera faraonica con un piccolo “danno collaterale”: venuta meno l’azione pulitrice della marea i detriti si stanno accumulando nell’intero bacino idrografico del fiume. E così nel centro di Pyongyang il maestoso corso del Taedong ha un profondità di poche decine di centimetri.
Una bella metafora, volendo.
Ma, nel silenzio e nella reclusione vigilata di questi giorni, non siamo diventati anche noi un po’ nordcoreani?

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