Rispetto per Silvia Romano

di Carla

No, non andrà tutto bene e no, non diventeremo affatto migliori. A smentire l’ennesimo luogo comune o wishful thinking sul mondo post Coronavirus sono le reazioni sempre più scomposte sui social media alla liberazione di Silvia Romano, la volontaria italiana rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e rimasta prigioniera per un anno e mezzo degli islamisti di al-Shabaab.
Ecco di nuovo all’opera gli esperti dell’università della vita che, appena smessi i panni di virologi ed economisti, discettano di servizi segreti, riscatti, sindrome di Stoccolma e persino di orologi da polso indossati al momento del rilascio e soprattutto della conversione all’Islam della ragazza.  Rimandatela in Africa è la cosa più gentile che ho letto, il resto erano inviti allo stupro o commenti pornografici sul sesso consenziente con i suoi rapitori.  Nel giro di poche ore da quando è apparsa, avvolta in un largo barracano verde, le sono stati attribuiti un matrimonio con uno dei rapitori, una gravidanza e va da sè, la connivenza con i terroristi, a cui a questo punto non avrebbe dovuto essere strappata spendendo i soldi dei contribuenti, eccetera.
Ora, c’è la capziosità di partenza di ogni “ragionamento” di questo genere, ovvero identificare l’Islam con la delinquenza: Silvia Romano se davvero si è convertita spontaneamente non ha per questo abbracciato l’ideologia aberrante dei suoi carcerieri. Esattamente come essere cattolici non implica applaudire le azioni dell’Ira nell’Irlanda de Nord ed essere cristiani  non significa aderire  idealmente al Ku Klux Klan, e così via.
Ma il punto, che per quanto ho letto solo Domenico Quirico, grazie anche alla sua dolorosa esperienza personale ha saputo cogliere su La Stampa, è che la conversione, e a volte per le donne il matrimonio forzato, fanno parte del modus operandi dei terroristi islamici in Africa e non solo.
C’era un precedente, almeno, che, essendo le protagoniste africane come i loro rapitori forse pochi hanno notato e ricordato, quello delle 276 studentesse nigeriane di religione cristiana rapite a Chibok nell’aprile del 2014 da Boko Haram. In parte uccise, in parte liberate nel corso degli anni, sono tornate, quando ne hanno avuto la fortuna, avvolte in abiti islamici, tutte “convertite”, alcune incinte, altre con figli al seguito nati durante la prigionia.
Può essere, o non essere, il caso di Silvia Romano, così come può essere che le sue dichiarazioni sul trattamento riservatole e sulla spontaneità della sua nuova fede siano un copione dettato dalle condizioni del rilascio, dalla prudenza, dalla paura di compromettere qualcuno rimasto in Africa om banalmente, dalla paura per se stessa. Questo probabilmente si capirà meglio in futuro. Ma in un caso come nell’altro, non c’è proprio nulla da rimproverare a Silvia Romano E mi spiace di dover persino scrivere un’ovvietà del genere.