Virus, lockdown e altri spauracchi
Ho perso l’occasione di tenere un diario del cosiddetto lockdown, come tanti hanno fatto, chi sull’ironico, chi sul poetico, chi sull’aneddotico o sullo scazzato. In realtà non sapevo che dire se non dare conto del mio crescente malessere, un indigesto mischione di esasperazione, tristezza, pensieri claustrofobici e ricorrenti su posti anche vicini eppure lontani come la Luna, del tutto irraggiungibili, nostalgie lancinanti di cose, persone, tagli di luce, voci, paesaggi. E così via, nulla da tramandare ai posteri. A voler essere gentili.
Nello stesso tempo, tuttavia, ci sono stati momenti di autentico benessere: vivo lungo una pista ciclabile, bella, piena di verde e di scorci suggestivi, ma normalmente assai vissuta perché ci passano ciclisti assatanati con tutine lurex che pretendono strada, gente ansimante che corre, cauti ma vocianti pedoni, bambini, anziani, passeggiatori di cani nervosi e così via.
In questi mesi il silenzio, la quasi totale assenza di passanti, l’aria pura e il silenzio l’hanno trasformata in un paradiso.
Ecco forse ho vissuto un periodo schizofrenico, divisa tra il mio disagio per la clausura forzata e il piacere di un mondo circoscritto ma rarefatto, come depurato di ogni interferenza.
Da un lato pativo , come ho sempre patito, l’obbligo; sono il tipo di persona a cui basta intimare di stare ferma per farle venire voglia di muoversi. Inoltre normalmente viaggio, mi sposto, non sono molto stanziale.
Dall’altro, già abituata a lavorare da casa, provvista anch’io di cani da passeggiare per poter comunque mettere il naso fuori casa, con mille lavoretti fin lì trascurati da fare in casa e in giardino, mi godevo il rimto lento, la quiete irreale ma operosa di ogni giorno.
Non ho mai provato nessuno dei sentimenti che si sono succeduti, molto rapidamente, nella maggioranza dei miei connazionali. Non ho avuto paura, perché la probabilità di ammalarmi mi è parsa sempre oggettivamente molto remota, non svolgendo un lavoro a rischio, non ho provato nè orgoglio nè sfida, non ho cantato dai balconi, non ho applaudito i medici, ma nemmeno ho spiato dalla finestra con livore le varie categorie di malcapitati diventati via via nemici pubblici numero uno.
Anzi, mai come ora, ho provato empatia: per i malati e i morti, ovviamente, ma anche per i bambini costretti a casa, per gli anziani che trascinavano le borse della spesa in una città vuota di persone e di mezzi ma sorvegliata a vista da tutte le forze di polizia di cui disponiamo, per i soli, i disperati, gli infelici e ovviamente per il mare di gente che aveva perso, o stava perdendo il lavoro.
Nell’insieme ho vissuto come in un limbo, cercando di non pensare e di fare, giorno per giorno, quello che dovevo, cercando di non cadere nella trappola emotiva del dov’ero l’anno scorso a Pasqua, per il 25 aprile, per il mio compleanno, eccetera.
Ma istintivamente, a volte inconsciamente, contavo i giorni che mancavano alla fine. Perché ero sicura che ci sarebbe stata una fine, che presto, o tardi, tutto sarebbe svanito come un incubo all’alba e la vita, rumorosa, chiassosa inquinante, a volte spiacevole, sarebbe ripresa come prima,. che avremmo dimenticato tutto, siamo così bravi noi esseri umani a dimenticare, fa parte, anche del nostro imprinting , della nostra salvezza come specie.
Il brutto per me viene adesso.
Non credo più che ci sarà una fine. Non credo più, non ho mai pensato in realtà che”andràtuttobene”. La fine è come un bersaglio mobile che si allontana via via che ti avvicini. Guariscono i malati, ma non le ferite che tutto questo ci ha recato. Non siamo più buoni, anzi, siamo ancora più incattiviti, pronti a denunciarci a vicenda per trasgressioni vere e/o presunte. Non c’è più un nemico, fosse l’immigrato o l’evasore, o il “nullafacente” da odiare, ma molti e variabili nemici. Chiunque può diventare nemico, basta una foto, un titolo su un giornale, un meme sui social.
E, interiorizzando l’idea che la colpa dei nostri guai non ha a che fare con qualcosa di reale e valutabile come il sistema sanitario o le decisioni prese o non prese, ma di un nemico oscuro e malvagio, sia la Cina, i “poteri forti ” o il vicino di casa che esce troppo, siamo diventati totalmente manovrabili. Potrebbe bastare la minaccia di un nuovo virus, o del ritorno di quello vecchio, a convincerci a rinchiuderci di nuovo in casa, molti in effetti non ne sono ancora usciti. E senza dover esibire statistiche o dati che del resto mai come in questi mesi si sono rivelati aleatori, alterabili e discutibili, solo agitando l’ombra del pericolo come un drappo rosso davanti agli occhi di un toro.
Non siamo diventati più attenti all’ambiente anche quando ci hanno dimostrato in modo inoppugnabile che correvamo verso il disastro; lo spettacolo della morte altrui, per guerra, per fame, per ignoranza, non ci ha convinto a cambiare idea o stile di vita, anzi; statistiche impressionanti su tumori, malattie cardiovascolari e quant’altro ci hanno lasciato indifferenti cme riguardassero un’altra specie. Bastava un virus, che nessuno ha nemmeno ancora capito con sicurezza come si prende, per renderci docili, disposti a tutto, malleabili e condizionabili. Non è la fine, è appena l’inizio.
Vita muta est