A due passi dall’Italia l’inferno della rotta balcanica
Malgrado gli appelli, malgrado l’impegno delle associazioni umanitarie e dei volontari, nonostante i fondi stanziati dall’Unione Europea, non migliora né cambia la situazione dei profughi dal Vicino Oriente, dal Pakistan e dall’Afghanistan; dal Bangladesh, e dal Corno d’Africa, bloccati ai confini dell’Europa, a Bihać, in Bosnia.
Sono migliaia di persone – giovani, famiglie, minori abbandonati a se stessi – costrette a sopravvivere nei campi, nelle case abbandonate e nelle foreste senza poter andare da nessuna parte perché quando tentano di passare il confine e sono intercettati dalla polizia croata, secondo numerose testimonianze confermate dalla Croce Rossa, vengono picchiati, denudati, rispediti indietro scalzi e con le ossa rotte. Durante l’inverno, che nella zona è severo, sono girate le immagini di poveretti scalzi sotto la neve, riparati alla meglio dentro sacchi a pelo dopo che due giorni prima di Natale nel campo di Lipa, fino a quel momento unico riparo per un migliaio di persone respinte dalla Croazia, dalla Slovenia e dall’Italia, era accoppiato un incendio; ma la vita è difficile anche nei campi, dove sotto una tenda possono ammassarsi fino a 40 persone, le file per avere un po’ di cibo possono prolungarsi per ore, c’è un rudimentale gabinetto ogni 100 persone e si fa il fuoco con rifiuti di plastica che spandono fumo tossico.
Non manca, naturalmente, il coronavirus, difficile da circoscrivere in condizioni di convivenza e sovraffollamento e impossibile d gestire dato che chi può cerca comunque di scappare, quarantena o no.
Una situazione descritta con passione e amarezza da Silvia Maraone, project manager di Ipsia, Ong delle Acli, che vive nel paese da molti anni e lo racconta benissimo nel suo blog nellaterradeicevapi e che in numerose interviste traccia un quadro senza speranza sia per le condizioni della Bosnia, paese diviso, senza un vero governo e devastato dalla corruzione, sia per la totale precarietà della vita dei profughi sospesa nel nulla: “Ci sono famiglie in giro da due-tre anni, transitate da Turchia, Grecia e Serbia, non sanno più neanche perché sono partite, dove stanno andando. Hanno amici o parenti che sono arrivati in Francia, Germania, Italia, non hanno ancora documenti e l’asilo gli è stato negato, gli passa la voglia o hanno paura di provare il game (così viene chiamato l’azzardo di provare a superare il confine croato) se hanno subito o visto violenze, ci mettono un po’ a ritrovare il coraggio, soprattutto se sono meno giovani”.
La rete internazionale di RiVolti ai Balcani ha fatto un lavoro certosino per documentare le violenze della polizia croata su tutto il percorso di una rotta chiusa ufficialmente nel 2016 e su cui sono transitate 70mila persone dal 2018, ci sono state visite di europarlamentari e appelli alla Commissione europea, poi è calato il sipario.