Kiev, ottobre 2019
L’ultima volta che sono stata a Kiev era l’ottobre del 2019.
Ho dovuto controllare la data, perché mi sembrano passati decenni, anche se sono solo poco più di due anni. Ma ho una foto sul telefonino datata 5 ottobre 2019 che ci ritrae all’aeroporto di Orio al Serio in piena notte, un po’ stravolti ma sorridenti, perché eravamo in procinto di partire ed eravamo contenti. In realtà ho un mare di foto di quei giorni, una specie di diario, perché un telefonino serve anche a prendere appunti visivi, a fermare istanti che andrebbero persi, permette di guardare e poi di ricordare.
Ricordare ora è piuttosto doloroso, ma è inevitabile, perché ogni volta che vedo in un video, in una foto, uno scorcio, una strada o la metropolitana, o un qualsiasi punto della città, mi viene in mente che ci sono stata e cosa avevo detto, pensato, immaginato, proprio in quel punto. E mi chiedo che ne sarà, che ne è stato delle persone con cui ho parlato, a lungo o per un momento, degli amici che ci hanno ospitato, delle loro case. E dei camerieri nei bar, e dei bambini per strada. E.
Non era la prima volta che visitavo Kiev, ci ero già stata, due anni prima, in un lungo vagabondaggio estivo e a quei ricordi oggi minacciati si aggiungono così anche la grazia sgarrupata di Leopoli, la luce spettacolare di Odessa, le spiagge sul Mar Nero affollate di bagnanti e piene di vita, le lunghe strade piatte delle campagne, la sorpresa dei piccoli centri con sempre qualcosa di interessante da scoprire. Mi ero ripromessa di tornarci e ho avuto la fortuna di poterlo fare. Ora vorrei non averlo fatto, invece. Preferirei poter pensare a quei luoghi come estranei, perché è sempre più facile mantenere le distanze quando non sei coinvolto.
La foto successiva sul mio telefono è una scritta che dice Welcome to Kyiv, con una grande foto del sindaco, Vitali Klitschko, l’ex campione di boxe che ora si trova a combattere su un ring dove è in palio la vita. Kyiv, Kiev, L’viv, Leopoli, L’vov, Lemberg. In Ucraina i nomi contano, raccontano una storia, indicano un’appartenenza, sono una scelta. Kyiv è per gli ucraini, Kiev per i russi. E quindi quando io per comodità e abitudine dico Kiev intendo Kyiv. Ma in realtà non importa. Meglio, non dovrebbe importare.
Ci sono, nelle immagini di quei giorni, molte foto di caffè e ristoranti, ucraini, georgiani, orientali. E pranzi, cene, soste, interni suggestivi, la colazione che abbiamo fatto arrivando, un premio per le ore insonni in un luogo bellissimo, con una grande finestra affacciata sulla via. C’è la curiosa insegna del ristorante Ciorni more, Mare nero – un paradiso di cataste di pesci e molluschi – un manichino in abito da sera con la faccia di Brad Pitt affiancato da una sinuosa signorina con la testa di pesce, la data è quella del 10 ottobre. A Kiev si mangia benissimo, a ogni ora, piatti di ogni tipo, ed è una delizia entrare in questi posti caldi, accoglienti. Era, almeno. Che tempo si deve usare in questi casi? Nessun libro può insegnarlo. Io vorrei il futuro.
In tutto questo si insinua e si mescola la prospettiva grandiosa del Maidan, con i suoi infiniti ritratti di infiniti martiri, destinati ora a moltiplicarsi come in un incubo e la commozione, sempre nuova, di essere in un posto dove è stata fatta la storia. L’hotel Ukraina, che spicca scenografico sulla piazza. La prima volta ho dormito lì. Un trionfo sovietico, l’idea di oltrecortina di un hotel di lusso. Che non a caso è l’inizio, con lo sfondo del panorama esclusivo che si gode dalle sue finestre, di una serie tv che ho, che abbiamo amato. Sluha narodu, Servitore del popolo. Una sigla con una canzoncina accattivante, che per mesi è stata la suoneria del mio telefono, un ometto con le mollette ai calzoni che arriva in bici al palazzo presidenziale, salutando tutti allegramente. Volodymir Zelensky, una star televisiva che, sempre in quell’anno lì, il 2019, qualche mese prima, era diventato, come nella fiction, grazie alla fiction, davvero il presidente. Sembrava la favola di Cenerentola ed ora è un incubo. L’incubo di un uomo perseguitato, ricercato, alle strette, che grida che no, non se ne è andato, non se ne andrà, usando tutti i trucchi social che conosce per resistere alla menzogna.
Altre foto. Il mercato Bessarabia, i suoi infiniti tesori gastronomici, ma anche la sua architettura, evocativa come il suo nome, gli enormi monumenti sovietici sul lungofiume più bello del mondo e il beffardo arco dell’amicizia russo-ucraina del 1982, un orribile arcobaleno in titanio che di notte si illuminava con i colori delle rispettive bandiere.
Le chiese, i monasteri, tra i più antichi del mondo slavo, Santa Sofia che dentro è straordinariamente simile all’omonima ex chiesa e ora moschea di Istanbul da cui prende nome e che negli Anni ’30 rischiò di essere demolita, candele, icone, vetrate, due ragazzi che liberano una colomba bianca. Con il senno di poi fa male rivedere queste immagini che allora sembravano promesse.
Un gatto tigrato seduto su una poltrona e un altro gatto nero e diabolico di nome Behemoth, ippopotamo, che complica la vita a tutti nel Maestro e Margherita di Bulgakov. Che era nato qui, al numero 13 di Andrijvskij Uviz, la discesa Andrijvskij, una deliziosa strada acciottolata tra la città alta e la città bassa, nel quartiere soprannominato “la Montmartre di Kiev”. Bulgakov che ebbe la sua casa museo solo nel 1991, alla caduta dell’Urss e che fu boicottato durante lo stalinismo.
Le case, l’ospitalità perfetta di amici di amici in un appartamento arredato come un’opera d’arte in un condominio sovietico della periferia e l’atmosfera da salotto letterario di una casa lussuosa in un palazzo del centro. Ho la foto di una finestra che affaccia su degli alberi, è la stessa finestra che l’altro giorno ho visto su Instagram tutta fasciata di nastro adesivo perché, in caso di esplosioni i vetri non diventino armi mortali.
Le infinite passeggiate sulle rive del fiume, l’orrore del museo dell’Holodomor, quella volta fu Stalin a cercare di sterminare i “fratelli ucraini”, l’animazione del Podil, il quartiere dei ristoranti, degli aperitivi. Le foglie di castagno, simbolo di Kiev, che ho raccolto e messo da parte per un tatuaggio. In realtà a Kiev ho fatto due tatuaggi, uno proprio al Podil, in una casa che affacciava su un bel cortiletto nascosto. L’autrice ora su Instagram offre i suoi disegni a chi aiuterà l’esercito ucraino e pubblica, anche lei, foto di finestre barricate.
E naturalmente gli incontri, le tv, le redazioni piene di giornalisti giovani, bravi, che pensavano a come raccontare, a come far capire al mondo il loro paese.
E naturalmente, indispensabile come i taxi Uber in una città tanto estesa, la metropolitana. Non fastosa come quella di Mosca, ma monumentale. La metropolitana dove adesso ci si rifugia per sfuggire ai bombardamenti.
E la via per Chernobil, quella stessa via che in questi giorni riaffiora percorsa da carri armati, la via dell’invasione dalla Bielorussia. Chernobil, dove ho mangiato in mensa con i tecnici che lavoravano all’impianto e dove una guida mi aveva indicato un edificio pericolante spiegandomi che era un ricettacolo di radioattività e che se fosse crollato l’area sarebbe tornata off limits per almeno un trentennio. Villaggi abbandonati, asili con ancora i giocattoli e i banchi, cataste di mobili, mosaici in disfacimento, una foresta lussureggiante di alberi, la grande ruota del luna park, il ristorante sul lago e ovunque cani. E cavalli, lasciati lì dopo il disastro per vedere quanto ci mettevano a morire e che invece si sono riprodotti e sono/erano ancora lì, a galoppare nel bosco. Un luogo incantato e maledetto che ora è in mano all’esercito russo e chissà cosa se ne faranno.
E chissà dov’è la testa di Stalin con la cravatta dipinta di rosso che ho fotografato all’ingresso dell’area dove si innalza il Duga, l’enorme, abnorme reticolato di pali e antenne che avrebbe dovuto servire a intercettare i missili che potevano attaccare la centrale.
E tanto altro ancora, ma soprattutto le persone, italiani e ucraini, con cui ho condiviso quei giorni e con cui ho scoperto un mondo che spero di ritrovare.