No, i talebani non sono cambiati. Parola di Amnesty. E non solo
Circola molto in questi giorni la narrazione dei talebani che sarebbero “cambiati”, che sarebbero diventati addirittura “distensivi”, qualsiasi cosa voglia dire. Il tutto corredato da regolari e compunte interviste su media occidentali e dall’attenta orchestrazione di una serie di twit che mostrano le allegre scampagnate dei tagliagole al luna park e consimili amenità. Le testimonianze di chi in Afghanistan c’è stato, e ci sta, sono un po’ diverse.
E non si tratta solo del dramma dell’aeroporto di Kabul, circondato e assediato dai presunti studenti coranici che “filtrano” chi cerca di mettersi in salvo dalla loro sicura vendetta, delle nefandezze piccole e grandi, della statua di Abdul Azi Mazari, leader hazara ucciso nel 1995, ora decapitata dai suoi assassini a Bamiyan, dove ancora restano le rovine dei giganteschi Buddha, patrimonio Unesco fatti saltare con la dinamite dal governo Taleban 1, delle ragazze e delle donne dai 15 ai 45 anni rastrellate casa per casa per essere date “in moglie” ai miliziani, della caccia al “collaborazionista”, delle esecuzioni sommarie degli oppositori da portare a termine prima che intervenga la fantomatica “amnistia generale”. O del ragazzo afghano – ne racconta il quotidiano britannico Daily Telegraph – fermato per strada e accusato di “non rispettare l’Islam”perché indossava dei jeans e quindi picchiato, frustato sul collo e minacciato con una pistola. Odelle attiviste afghane della onlus milanese Pangea che, secondo i racconti dello staff che è riuscito a portarle in salvo in Italia insieme ai loro figli dopo che erano rimaste intrappolate nella folla attorno all’aeroporto di Kabul per ore, senza acqua, anche con bambini piccolissimi tra le braccia, portano i segni delle violenze subite e di quelle viste.
A Kabul gli “studenti” ci sono arrivati spargendo sangue e i massacri sono iniziati da tempo. Secondo quanto ricostruito dai ricercatori sul campo di Amnesty International, che hanno parlato con testimoni oculari, tra il 4 e il 6 luglio i talebani hanno massacrato nove uomini di etnia hazara dopo aver preso il controllo della provincia afgana di Ghazni. Queste brutali uccisioni rappresentano solo una piccola parte del bagno di sangue compiuto fino a oggi dai talebani, poiché questi hanno interrotto i servizi di telefonia mobile in molte delle aree conquistate e controllano quali fotografie e quali video vengono condivisi.
“Quanto accaduto nella provincia di Ghazni – dice Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International – è un terribile richiamo del passato, un’orribile indicazione di cosa possa significare il passaggio del potere nelle mani dei talebani e la conferma che le minoranze etniche e religiose sono in grande pericolo”.
Le testimonianze raccolte sono il consueto catalogo degli orrori.
“Il 3 luglio, a seguito dell’intensificarsi degli scontri tra i talebani e le forze governative, 30 famiglie del villaggio di Mundarakht hanno lasciato le loro abitazioni e hanno raggiunto i loro pascoli estivi in montagna. La mattina dopo, poiché le scorte alimentari non erano sufficienti, quattro uomini e quattro donne sono tornati nel villaggio, dove hanno trovato le loro case saccheggiate e i talebani in attesa del loro arrivo.
Wahed Qaraman, 45 anni, è stato tirato fuori dalla sua abitazione. I talebani gli hanno spezzato braccia e gambe, gli hanno sparato alla gamba destra, gli hanno strappato i capelli e lo hanno colpito al volto con un oggetto appuntito.
Jaffar Rahimi, 63 anni, è stato accusato di lavorare per il governo afgano solo perché gli hanno trovato delle banconote in tasca. Lo hanno strangolato con la sua sciarpa. Le persone presenti al funerale hanno dichiarato che il suo corpo era pieno di ferite e i muscoli erano usciti da entrambe le braccia.
Sayed Abdul Hakim, 40 anni, è stato prelevato dalla sua abitazione. I talebani lo picchiato coi bastoni e coi calci dei fucili, gli hanno sparato due volte a una gamba e due volte al petto, poi si sono disfatti del corpo in un vicino torrente.
‘Abbiamo chiesto ai talebani perché lo avessero fatto e ci hanno risposto che quando c’è la guerra chiunque muore, che abbia un’arma o meno’, ha dichiarato un testimone che ha assistito ai funerali.
Altri tre uomini – Ali Jan Tata di 65 anni, Zia Faqeer Shah di 23 anni e Ghulam Rasool Reza di 53 anni – sono stati uccisi ai posti di blocco dei talebani nei due giorni successivi mentre, dopo essere scesi dalla montagna, stavano attraversando il villaggio di Mundarakht per raggiungere quello di Wuli. Ad Ali Jan Tata hanno sparato al petto, a Ghulam Rasool Reza al collo. Il petto di Zia Faqeer Shah era così dilaniato di colpi che non è stato possibile ricomporre il corpo per il funerale.
Le ultime tre vittime sono Sayyed Ahmad, 75 anni, che aveva dichiarato a tutti che i talebani non gli avrebbero fatto nulla perché era anziano, ucciso con due proiettili al petto e uno su un fianco mentre andava a nutrire il suo bestiame; Zia Marefat, 28 anni, sofferente di depressione, ucciso con un colpo alla tempia; e Karim Bakhsh Karimi, 45 anni, un uomo con disturbi mentali rimasto nel villaggio e ucciso con un colpo alla nuca”.
E mentre un passaggio per attraversare la frontiera con il Pakistan, secondo i dati raccolti dal Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), costa oggi 12 mila rupie pachistane da versare in contanti ai trafficanti, contro le consuete duemila, l’Onu si prepara ad aggiornare il conto dei rifugiati, che erano già due milioni a causa degli ultimi 20 anni di guerra.
Quegli afghani che ancora credono che l’occidente, possa difenderli, salvarli dalla barbarie talebana, dovrebbe capire che l’occidente fa le cose solo per business; per il resto come può aiutare un altro chi non è in grado di difendere se stesso..