Perché la morte in diretta di George Floyd ci riguarda
Non riesco a smettere di pensare alla morte di George Floyd, ucciso in modo brutale e insensato da un branco di poliziotti a Minneapolis, con un misto di disagio, sgomento e quello che Roberto Saviano chiama scuorno, un senso di vergogna, di disonore, che mi opprime come se avessi un ruolo personale nella vicenda.
L’aspetto atroce è, ovviamente, la morte pubblica, mediatica, quelle ultime parole diventate, come si usa dire, virali, cioè dette, ridette, risentite, ridotte a slogan e che, per intero, sono queste:
«È la mia faccia, amico
non ho fatto nulla di grave, amico
ti prego
ti prego
ti prego non riesco a respirare
ti prego amico
qualcuno mi aiuti
ti prego amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
ti prego
(parte non comprensibile)
amico non respiro, la mia faccia
devi solo alzarti
non riesco a respirare
ti prego, un ginocchio sul mio collo
non riesco a respirare
merda
lo farò
non posso muovermi
mamma
mamma
non ce la faccio
le mie ginocchia
il mio collo
sono finito
sono finito
sono claustrofobico
mi fa male lo stomaco
mi fa male il collo
mi fa male tutto
un po’ d’acqua, o qualcosa
vi prego
vi prego
non riesco a respirare, agente
non mi uccidere
mi stanno ammazzando
ti prego, amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
mi stanno ammazzando
mi stanno ammazzando
non riesco a respirare
non riesco a respirare
per favore, signore
ti prego
ti prego
ti prego non riesco a respirare».
Ecco, io so che è già accaduto prima, e accadrà ancora. So che usciamo, forse, da un periodo in cui la morte è stata uno spettacolo quotidiano e, per alcuni, maledettamente vicino. So che i morti di morte ingiusta, ogni giorno, nel mondo non si contano.
Eppure questa morte è speciale perché nasce da un atto di assoluto arbitrio, avvenuto sotto gli occhi del mondo, in una nazione che è, o forse era, un esempio di democrazia.
La cronaca racconta di George Floyd, afroamericano, 46 anni, un passato da atleta e da rapper e un presente da buttafuori buttato fuori dal lavoro dal virus, una passata condanna, espiata, per rapina, due figli, un presente incerto. Non un santo, non un demonio.
Il suo assassino, con la partecipe collaborazione dei colleghi, ha due anni meno di lui, si chiama Derek Michael Chauvin, e ha un passato per certi versi sovrapponibile a quello della vittima, almeno per quanto riguarda la comune attività come guardie di sicurezza nella discoteca latina El Nuevo Rodeo. Per il resto, durante la carriera in polizia, ha totalizzato 18 denunce a suo carico, 3 sparatorie, una vittima. Gli altri poliziotti coinvolti sono esempi viventi del melting pot statunitense perché hanno nomi come Alexander Kueng e Tou Thao.
Causa del contendere, una banconota forse falsa da 20 euro che Floyd aveva forse usato per comprare delle sigarette in un negozio davanti a cui si era fermato, poi, in auto.
Venti dollari valgono una vita?
Ma le domande vere, quelle che mi ossessionano, sono: cosa si prova ad avere per 8 interminabili minuti la pressione del ginocchio di un altro essere umano sulla trachea e a non capire perché? Cosa si prova a supplicarlo, inutilmente, per un filo di aria? Cosa si prova a essere una montagna di muscoli e a essere ridotto all’impotenza di un bambino dall’assalto congiunto di quattro persone armate?
Black lives matter è lo slogan della protesta che sta dilagando negli Stati Uniti. Pacifica o violenta, a seconda dei casi. Ma, come dice una vignetta che gira in rete: Martin Luther King protestava pacificamente, eppure l’avete ucciso lo stesso.
C’entra il razzismo? Mi sembra una domanda retorica. Solo il fatto che non esistessero i social media ci evita di sapere cosa succedeva ogni giorno agli schiavi afroamericani dal momento della “cattura” , passando per “l’esportazione” e fino alla consegna agli acquirenti e al loro “impiego”. Ma esistono libri molto interessanti sul tema.
Eppure. A protestare non sono solo gli afroamericani. Al loro fianco sono scesi in piazza rappresentanti di tutto rispetto di quella che è e resta una società aperta, illuminata, libera. E ugualmente importanti e commoventi sono le foto dei poliziotti che si inginocchiano davanti a manifestanti e li abbracciano. Compensano il ginocchio di Derek Michael Chauvin che blocca, fino alla morte, la carotide di George Floyd? No. Ovviamente no. Ma sono una speranza, un antidoto alla vergogna.