Ciò in cui crediamo esiste. Un tentativo di recensione
Da bambina pensavo che le cose, e i nomi, avessero un’anima a cui corrispondessero, letteralmente. Se l’acqua si chiamava Panna, doveva sapere di panna. Se uno si chiamava Davide, che per me era un nome bellissimo, doveva essere almeno bello.
Già più che adolescente rimasi delusa dalla discoteca Grande Gatsby, credo a Limone, Limone Piemonte intendo, perché non aveva assolutamente arredi Anni ’20 e non ospitava ragazze longilinee con tagli corti e giovani affascinanti in smoking, possibilmente bianco.
La letterarietà fantastica mi ha segnato. Più che adulta, fatico ancora a separare ciò che i nomi, le immagini, i paesaggi mi ispirano, dalla realtà. Cos’è la realtà?
Gli affreschi muovono gli occhi. Anche i dipinti. Lo so da quando a scuola mi dicevano della Gioconda, che ti segue ovunque con lo sguardo. E mica solo lei, ho fatto la prova con tutti i ritratti che ho avuto l’occasione di vedere. Ti seguono, certo, sono severi e vigili. C’è qualcuno, li dietro.
E quindi non ho avuto nemmeno un accenno di incredulità quando nel romanzo Kirill ha iniziato a vedere i cinocefali. Ho pensato che li avrei visti anch’io, al posto suo, perché no. Tanti anni fa ho visto lupi bianchi con occhi rossi fosforescenti in una radura tra i boschi vicino a Siena; e so che stavano per circondarmi.
La realtà è ciò in cui crediamo. Può essere, è, elusiva, ingannevole, complessa, ambigua. Ma esiste e ci può impressionare, e fare male, anche molto male. Solo, però, finché le diamo credito e fiducia. L’inghippo è che non scegliamo noi, a priori.
Il mostro in agguato sotto il letto, pronto a ghermirci – un braccio, una gamba, una mano, se appena osiamo spostarci, muoverci, cambiare posizione – preferiremmo non ci fosse, ma se ci crediamo c’è. Lo percepiamo nascosto lì, nel buio e forse, se appena ne avessimo il coraggio, aprendo gli occhi vedremmo i suoi occhi fosforescenti, bianchi e alieni brillare nell’oscurità ai piedi del letto. Pazienti e maligni, in attesa di un passo falso.
E io so da sempre che nelle case dove non c’è nessuno è meglio fare attenzione ad aprire le porte. Non sai mai cosa ci può essere in quella stanza. O meglio, io lo so benissimo e preferirei evitare.
Amando Stephen King, e i film, e i libri che poi la notte, e a volte anche il giorno non ti danno pace; e temendo e amando vampiri, licantropi, presenze sovrannaturali, apparizioni, premonizioni, profezie, ho amato questo libro. E poi, certo, ci sono la descrizione dei personaggi e dei luoghi: una precisione, una nitidezza che ricordano i grandi quadri del realismo russo, corretti e pervertiti con una percentuale sostanziosa di horror holliwodiano ed effetti speciali. C’è il grande respiro dei classici, l’analisi minuziosa e spietata dei moti dell’animo che è così tipica di quasi ogni autore russo. Un’attenzione, una cura quasi incredibili, quasi anatomiche.
Ma, diciamo la verità, i protagonisti sono loro, le creature che ci si immagina un po’ Anubi e un po’ lupo mannarro americano a Londra e che arrivano forse da un passato molto antico. O forse da un passato molto più recente, per non dire contemporaneo. Guardiani pronti a intervenire contro qualsiasi libertà di scelta. Eredi di una tradizione sopravvissuta alle sue ragioni.
Ricorda qualcosa. Anzi ricorda molte cose. Perché questo romanzo, scritto o, forse, tradotto benissimo, è poliedrico e fantasioso come la realtà. Ci si può vedere il brillante tentativo di fare della Russia la nuova frontera della provncia americana fonte di ogni diavoleria; ma anche un omaggio ai classici, o una sceneggiatura bella e pronta. O riflettere su come in realtà la Russia, tra streghe, sciamani e cupe leggende slave, sia di per sè una fonte inesauribile di miti maligni, non solo remoti. L’incidente del passo di Djatlov, nel febbraio 1959, con quella allegra comitiva di studenti in gita verso Cholatčachl’, la “montagna dei morti”, nel cuore nevoso degli Urali, è già di per sè un romanzo horror, corredato di foto prima tenere e poi inquietanti. Scherzi, canti, allegria goliardica, giacche a vento d’antan che si trasformano in una notte nell’incomprensibilità dei cadaveri squarciati e come bruciati, nel mistero di una tenda dilaniata dall’interno.
Cosa successe allora, davvero? Il finale resta aperto, proprio come nei Cinocefali. Che si aggirano famelici e attenti ai confini del nostro campo visivo. Appaiono e scompaiono, a piacere loro, perché la realtà sfugge e, come è noto, supera, e di molto, la fantasia.
traduzione di Anna Zafesova
In un thriller magistrale e insolito, Aleksej Ivanov demolisce uno dei miti più persistenti della letteratura russa, quello della campagna come sede sacrale dell’anima nazionale. La Russia profonda è ormai un inferno da cui fuggire, a costo di stringere un patto col diavolo.
La Russia profonda è ormai un inferno da cui fuggire, a costo di stringere un patto col diavolo.. ma fuggire dove…non si può mica fuggire da se stessi
La Russia profonda è ormai un inferno da cui fuggire, a costo di stringere un patto col diavolo.. ma fuggire dove…non si può mica fuggire da se stessi, o da ciò in cui si crede